I disegni fatti male, il linguaggio universale della perfezione.

Quello che segue è il canovaccio per il mio intervento al TED X di Macerata che aveva come tema “Le cose fatte bene”. Ha una natura particolarmente discorsiva e informale proprio per il tipo di destinazione che aveva. Ci tengo anche a specificare che ci sono scienziati, semiologi, teorici dell’immagine che hanno senza dubbio ragionato e scritto su questi temi con una competenza incomparabile alla mia e soprattutto con una documentazione scientifica che io non porterò a supporto del mio ragionamento. Uno su tutti: Riccardo Falcinelli con il suo “Guardare, Pensare, Progettare” che consiglio a tutti. La verità è che questo pezzo vuole essere un punto di vista estremamente soggettivo e specifico di un artista visuale che si interroga sulla propria concezione di cosa è fatto bene e cosa male nel disegno, in 18 minuti (il formato dei TED impone questa durata standard). Non va considerata una teoria sul disegno, questa. E’, né più né meno la storia di come sono arrivato al modo in cui affronto la creazione delle immagini. Buona Lettura!

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Sono un disegnatore di fumetti e vengo spesso lodato per la bellezza grafica dei miei lavori. 
Tralasciando sul fatto che sia vero o meno, lavoro perchè disegno bene.
Niente di trascendentale, ma mi ci pago l’affitto.

Disegno in una serie disparata di campi, in verità. Cinema, graphic design, libri illustrati, animazione, ma il fumetto l’ho scelto perchè è un medium che mette continuamente in crisi la mia idea di cosa sia un disegno “fatto bene”. Mi tiene vigile sul senso del mio lavoro di creatore di immagini come nessun’altro.

Un disegno stupendo nei fumetti si può presentare sia così:

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Che così:

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Questa ricchezza, questa contraddizione spaventosa avviene fra artisti contemporanei, con una naturalezza sorprendente. In continuazione. E’ una differenza significativa dalle altre forme artistiche come la pittura o la scultura e l’ho trovata con questa frequenza e intensità solo nel fumetto. Leggere e fare fumetti ha lavorato sulle fondamenta della mia idea di bello nel disegno come nessun altro medium.

Da quando sono piccolo mi dicono che disegno bene.
Che faccio dei disegni fatti bene.
A dirla tutta posso affermare con una certa sicurezza che mi sono messo sotto a disegnare per questo.
Ogni disegno che facevo mi facevano tutti un sacco di complimenti. 

Sono cresciuto in una famiglia dove tutti disegnavano, sia mia mamma che mio padre. In casa giravano un sacco di libri illustrati e a fumetti. Sono chiaramente il frutto di un’educazione  fortunata in quel senso, quindi per anni ho dato per scontato cosa volesse dire disegnare e farlo bene.

Poi man mano che crescevo alcuni nodi sono cominciati a venire al pettine.

Ad esempio: a scuola capitava spesso di divertirci a farci i disegni sui diari. 
Sapete quando ti fai le caricature, o disegni i personaggi dei cartoni animati o banalmente disegni cose a caso che ti piacciono in quel momento. 
Capitava, a volte, che anche i peggiori disegnatori in classe mia facessero disegni che piacevano a tutti, così, in due minuti. Intuizioni.

“Spy Kids 3D”, un fumetto pazzesco di un bambino di 8 anni che ho conosciuto a scuola di mia madre.

“Spy Kids 3D”, un fumetto pazzesco di un bambino di 8 anni che ho conosciuto a scuola di mia madre.

Io, d’altrocanto, generalmente provavo questa frustrazione spaventosa di non riuscire a disegnare nulla, di getto. Mi bloccavo. Ero strutturato. Avevo bisogno di progettarlo, il disegno. Dovevo ragionarci su, farmi la matita sotto. Capire da dove veniva la luce. Correggerlo diecimila volte. Invece vedevo i miei compagni che prendevano la penna a sfera blu e pur con dei disegni tuttosommato approssimativi strappavano un sorriso a tutti in 2 minuti, magari cogliendo l’espressione di un compagno in una caricatura.

Pensate che per quanto avessi già imparato a tenermi per me i miei patemi artistici, ricordo distintamente di essere addirittura finito a litigarci su questa roba, ben tre volte: alle medie e alle elementari, in classe, e con gli amici del mare, quando giocavamo ai giochi di ruolo e finivamo per disegnarci i personaggi sulle schede. Erano liti che si sono concluse tutte con lo sgomento di non capire come facessero a non vedere la differenza fra un disegno fatto bene (complicatissimo, spesso incompleto: il mio) e uno fatto male (quello semplice, che riconoscevano e amavano tutti).

Queste tre litigate mi sono rimaste impresse perchè oltre a essere indice di una frustrazione ingestibile, sono i momenti in cui in qualche modo ho iniziato a pormi davvero la domanda su cosa rendesse un disegno fatto bene o fatto male. E cosa avesse a che fare con la reazione della gente. La sofferenza, la delusione mi hanno imposto di cercare di capire quanto fosse una questione di opinioni e soggettività del bello e quanto no.

Piano piano ho cominciato a provare a darmi delle risposte.
Le più stupide e confortanti, ovviamente:

“Un disegno fatto bene deve essere un disegno che pare una foto, che è realistico.”

Un disegno realistico è una cosa che tutti possono capire, no? 
E’ uguale alla realtà.  La realtà la capiscono tutti, quindi un disegno realistico deve essere più facile da capire e in più appaga per forza tutti per il gesto tecnico.

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Mi sono quindi dedicato allo studio della pittura da Leonardo ai fiamminghi, da Caravaggio all’800, dei grandi interpreti del disegno votato al realismo, ma anche di illustratori fantasy e di fumettisti che avessero un disegno estremamente ricco di istanze realistiche come Liberatore, Corben, Bisley, Frazetta, Syd Mead e compagnia. 

E mentre il mio disegno diventava sempre più strutturato, con l’ossessione che dovevo arrivare a disegnare la realtà come se avessi un motore di rendering 3d al posto del cervello, senza copiare da nessuna parte, in un modo che fosse unico e inimitabile, continuava a perseguitarmi ancora più di prima la sensazione che si, i miei disegni iniziavano ad essere più solidi, ma gli scarabocchi di quei parvenue restavano spesso incisivi come le mie “sofisticatissime” opere, se non di più. (Ci tengo a precisare qualora non si fosse intuito dal mio modo di pensare dell’epoca che ovviamente, oltre a essere odioso, i miei disegni facevano letteralmente schifo, ma io ci credevo comunque tantissimo).

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Quando ero un bambino frequentavo una scuola di suore. Mi portarono ad Assisi e mi sono interrogato sul perchè Giotto venisse considerato un grande assoluto della storia dell’arte visiva. A naso non mi sembrava uno che sapesse poi disegnare troppo bene. 

Da ragazzino nato nel sistema prospettico cine/fotografico mi piacevano più i disegni dei Masters, che Giotto. Cento a zero. Lo confesso senza alcuna vergogna.

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Lo stesso con la scultura classica e arcaica, quella precedente all’esplosione del realismo figurativo dell’era ellenistica per intenderci. Perchè un kuros venisse definito bello all’unanimità era un mistero assoluto, per me. Questo senza dover arrivare al Michelangelo scultore, poi: già dopo il Laocoonte mi sembrava impallidisse tutto. 

Ne riconoscevo l’importanza oggettiva di essere venuti prima di tutto il resto, una considerazione ovvia e stupida di quelle che fai quando non capisci nulla.
Mi sentivo fortunato, un baro.
Giustificato dall’essere nato dopo.

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Ovviamente il fatto che esistesse un’opera sconfinata di gente come Picasso, ma anche Hannah & Barbera, Bruno Bozzetto, Armando Testa, Bruno Munari non mi sfiorava nel profondo. Certo, per me Bruno Bozzetto era e resta il più grande artista vivente italiano, ma in quegli anni non riuscivo a vedere il punto di collegamento fra quello che facevo io e lui. 
Di nome eravamo tutti e due disegnatori, ma di fatto era come se fossi un tennista e lui un cartografo navale. 

Serpeggiava sempre dentro di me il conforto che fosse gente che stava perdendo l’occasione per fare dei disegni belli. Che si stava in qualche modo limitando dal raggiungere il sublime.
Magari lasciandomi campo aperto. (Narcisismo e megalomania, allo stato puro, sono sovrapponibili all’idiozia)

Quando vedevo artisti come Burri, poi, non ne parliamo. Era un buco nero cognitivo.

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Poi sono arrivati i fumetti e l’animazione giapponesi. I videogiochi nipponici erano ormai un punto fermo dell’intrattenimento italiano, almeno da un decennio.

Un decennio in cui sono cresciuto con la vulgata e anche buona parte del pensiero critico sul fumetto e l’animazione giapponese che li liquidava come “tutti uguali”, “brutti”, “fatti con lo stampino”, “un escamotage commerciale”. Questo spesso sottolineandone la differenza qualitativa con la raffinatissima scuola americana in cui ogni disegno era “un’opera d’arte” e ce n’era uno ogni ventiquattresimo di secondo, ”come nei film con gli attori”. 

Per completare il polso della mia condizione cultrale e mentale: da ragazzo, tutti i dipinti giapponesi che poi ho scoperto fare capo all’Ukyo-E, specialmente i ritratti di donna, mi sembrava fossero sostanzialmente tutti uguali. Figli della stessa mano.

Non ero in grado di distinguere fra Utamaro e Hokusai.

Non ero in grado di distinguere fra Utamaro e Hokusai.

Da disegnatore sono confessioni tremende di ignoranza assoluta, me ne rendo conto, ma mentirei a dire il contrario. 

A pelle per me erano tutti “disegni giapponesi”.

Mentre non avrei mai ridotto Botticelli, Leonardo e Caravaggio a un indistinto “disegnatore italiano”. Si vedeva lontano un miglio che erano disegnatori diversi.

Anni dopo le cose sono cambiate. Ho studiato e ho cominciato a sforzarmi, un po’ perchè ne capivo qualcosa di più, un po’ dogmaticamente, se vogliamo, a prendere per veri e indiscutibili certi giudizi della storia su questi artisti.

Poi però ho avuto un colpo di fortuna.
Un mio caro amico, Gianluca Folì, che mi ha mostrato queste immagini (all’epoca introvabili) di Hokusai.

Sono parte di un articolato manuale di disegno che racchiude studi del grande maestro Giapponese.

Anche senza capirci assolutamente nulla di giapponese, la prima cosa che colpisce è senza dubbio il metodo di insegnamento. 

Partiamo dal layout di questo manuale, come è impaginato.
Un manuale occidentale partirebbe da fondamentali strutturali, ossa, muscoli, prospettiva.
Partirebbe da strutture semplificate per arrivare al complesso per stratificazione procedurale e parametrica, più o meno così:

Immagini da un manuale di disegno occidentale.

Immagini da un manuale di disegno occidentale.

Hokusai, fa il contrario esatto.
Affronta soggetti diversissimi, uno per volta. Parte dalla direttamente dalla superficie.
Parte dallo specifico per restare sullo specifico, senza l’idea che esista un metodo trasversale per comprendere tutto.

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Ogni pagina è divisa in due parti, una in alto come una sorta di “clipboard” con una raccolta ordinata in serie di “atomi” pittorici e ognuno di essi ha anche un numero che indica l’ordine con il quale vanno disegnati, esattamente come accade per l’insegnamento degli ideogrammi.

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Sotto un disegno composto a partire da quei segni, come fosse stato realizzato con un interfaccia drag and drop di un moderno software di disegno vettoriale. 

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La cosa incredibile di questo manuale è che ognuno di questi segni non è necessariamente il modo preferito di Hokusai di disegnare quella cosa. Sembra piuttosto il modo migliore di farlo, in pratica. Quello che lui consiglia come metodologicamente corretto, perchè il disegno sia chiaro, all’insegna della condivisione attraverso la ripetizione di un gesto efficientissimo e non alla ricerca di un atto unico, irripetibile e ineffabile. 

In sostanza, Hokusai sembra voler cercare “il nome comune delle cose visive”. Una foglia, la coda di un cavallo, una piega di un vestito. Archetipi indivisibili del disegno da lavorare a freddo come fossero timbri mentali. 

Che non significa ambire ad un modo di disegnare le cose in maniera universalmente riconoscibile, un po’ come tenterà poco dopo Otto Neurath con il suo sistema Isotype (padre del moderno modo di affrontare le icone pittografiche), ma di trovare un metodo di comunicazione visiva che sia il più codificato e condiviso possibile.

Gli artisti occidentali che avevo amato fino a quel momento erano perennemente alla ricerca disperata di imporsi nel segno, alla ricerca continua di una serie di “nomi propri”. Ossessionati dall’idea di catturare quella persona li, quel momento irripetibile, quel sentimento, cercando di coglierne gli aspetti unici attraverso unici segni, che non torneranno mai. 

Differentemente, Hokusai (e con lui tutta l’arte figurativa giapponese) stava cercando di portare il disegno sullo stesso piano semiotico della scrittura, realizzando quello che era si un manuale di disegno, ma anche un sistema modulare di idee tradotte in segni: un vocabolario visivo.  Letteralmente, perchè rivelatoria è stata la conferma di una mia cara amica traduttrice, Federica Lippi, che mi spiegò che molti di questi segni sono anche ideogrammi di senso compiuto, di uso comune. 

Come lo scrivi, così lo disegni. 
O meglio ancora: il modo di scrivere questa idea è questo disegno.
Albero si “dice” così:

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Un sistema di elementi assolutamente rigidi in cui la plateale ed efficace convenzionalità dei segni lascia libero l’autore di concentrarsi sulla loro posizione nello spazio, il loro ordine di lettura. Facendo un parallelo con la scrittura: non è che ogni libro per dobbiamo reinventarci il dizionario, perchè è la scelta dell’ordine delle parole, le stesse parole che possono usare tutti, che rende grande uno scrittore, non quanti neologismi si è inventato per pagina. 

Fatte le dovute differenze Carducci è diverso da Ungaretti per l’ordine e la quantità delle parole scelte, per le scelte diverse che hanno operato sulla struttura della loro scrittura, non certo perchè usino due dizionari diversi. L’invenzione della stampa a caratteri mobili non ci ha certo portato a dire che i libri erano tutti scritti con lo stampino. O meglio si, ma era il più grande dei complimenti possibili. Inoltre: i neologismi sono una cosa splendida quando succede che incarnino il sentire collettivo, ma non sono assolutamente necessari a scrivere un capolavoro. Non credo ci siano neologismi chessò io, in Moby Dick.

Come se non bastasse questo apre a una serie di figure retoriche completamente inedite per il modo occidentale di concepire il disegno. Analizziamo di nuovo il manuale di Hokusai.

La schiena del samurai dell’immagine in alto a sinistra è disegnata con una serie di segni che ha un significato di senso compiuto e vuoldire “montagna”. Il fatto che un samurai abbia la schiena che è una montagna mentre contempla il monte Fuji penso sia un modo meraviglioso di rivelarci le qualità interiori di quest’uomo in meditazione.

Se spostiamo per un secondo la macchina del tempo a circa 100 anni dopo, lo stesso popolo che mette il disegno sullo stesso piano della scrittura avrà la più incredibile, influente e inarrestabile produzione nel medium che di scrittura e disegno fa una cosa sola, il fumetto.
E, indovinate con che disegni lo farà? Lo farà con dei disegni che non somigliano al reale, “fatti male”, “tutti uguali”.

Che sembrano fatti con lo stampino. 

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Con la fine del Sakoku, verso la seconda metà dell’800 i porti giapponesi tornano ad aprirsi e l’arte nipponica inizia a entrare in circolo nell’immaginario planetario a partire credo dal mercato dell’arte francese. Nasce il Japonisme, l’art nouveau che mette in fila i primi elementi cruciali di quella che diventerà la linea chiara franco belga, il disegno europeo moderno che sboccerà poi nel lavoro di Hergè e Moebius, in uno scambio ideale continuo fra artisti come Koloman Moser e Takehisa Yumeji, Carl Larsson, Bilibin e Utamaro. 

Takehisa Yumeji e Kolomann Moser

Takehisa Yumeji e Kolomann Moser

Sorprendentemente anche un pittore con un’impostazione formale diversissima come Van Gogh rimane scioccato dalla novità e l’efficienza di quel segno così essenziale in cui ogni elemento grafico è una scelta consapevole, ne parla col fratello per posta e inizia a copiare a memoria i maestri giapponesi. (Un inciso: vi assicuro che anche solo vedere il materiale giapponese interpretato da Van Gogh al VanGogh museum di Amsterdam vale assolutamente il prezzo del biglietto.)

Giuro che è un Van Gogh.

Giuro che è un Van Gogh.

Mi sono sempre interrogato su come fosse possibile che NESSUN giapponese dell’epoca fosse stato a sua volta influenzato dal disegno figurativo accademico europeo. Alla fine di una considerevole ricerca mi sono imbattuto in uno degli interpreti maggiori dello Shin Ukyo-E (ovvero il nuovo Ukyo-E, la seconda generazione di pittori del genere), Yoshida Hiroshi. Yoshida Hiroshi è interessante soprattutto perchè è stato un grandissimo viaggiatore con tappe come New York, le zone naturali degli stati uniti o Londra, con dei risultati grafici a mio avviso sensazionali visto che è l’unico disegnatore di quel mondo grafico che abbia disegnato l’occidente. 

New York, disegnata da Hiroshi Yoshida.

New York, disegnata da Hiroshi Yoshida.

Il risultato grafico è pazzesco, è sicuramente il mio artista giapponese preferito e ricorda molto da vicino quello di un artista che avrà un’influenza incommensurabile sul fumetto planetario. 

“Little Nemo” di Winsor McCay.

“Little Nemo” di Winsor McCay.

In America infatti inizia a lavorare il più grande e importante fumettista di tutti i tempi, Winsor McCay, che intercetta la linea chiara dell’Art Nouveau per raccontare alcune storie disegnate sui quotidiani. Per mano sua muovono i primi passi sia il fumetto occidentale moderno che l’animazione che sboccia negli stati uniti grazie al lavoro impressionante dei fratelli Fleischer, di Walt Disney e di tutti i grandissimi dell’età dell’oro. Tutti autori che metteranno a “sistema” il disegno a linea chiara per formare delle vere e proprie catene di montaggio del disegno semplificato.

In uno scambio strettissimo da una parte all’altra del mondo, poco meno di cinquanta anni dopo, Osamu Tezuka, uno dei più grandi autori di fumetto giapponese, se non il più grande, raccoglie e perfeziona una serie di elementi grafici dell’animazione e del fumetto americano anni ‘20, abbraccia il suo codice visivo e ne distilla un vocabolario di segni letteralmente irresistibile.

“Tetsuwan Atom” di Osamu Tezuka.

“Tetsuwan Atom” di Osamu Tezuka.

Nessuno lo accuserà di scarsa originalità, o di essere una brutta copia del disegno americano. 
Tuttaltro: in patria e nel mondo verrà ricordato come il Dio del Manga (ovvero del fumetto).

Quello che è interessantissimo, a mio avviso, sono però questi studi sulle espressioni dell’essere umano.
Le stesse espressioni che diventeranno un primo standard condiviso fra praticamente tutti i disegnatori di manga.

Che vi ricorda? 

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Senza dubbio gli Emoji. 

 Il fumetto giapponese fa uso di un disegno semplificato, calligrafico, dal significato condiviso, che mette i volti dei personaggi, e non solo, sullo stesso piano della scrittura nei balloon.
Avete mai fatto caso a quanto i volti dei personaggi dei fumetti giapponesi siano simili a cerchi vuoti con un emoji all’interno?
Pesano come i balloon. Sono sullo stesso identico piano.
E’ un tipo di disegno che crea un ponte cognitivo cortissimo fra la realtà e l’idea pura, spostando le cose su un piano di universalità e perfezione completamente differente.

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Poincarè, un matematico e fisico teorico francese cita una frase di cui non si sa con certezza l’autore e che alcuni fanno addirittura risalire a Euclide che dice: “la geometria è l’arte di ragionare bene su disegni realizzati male”.

In sostanza quello che sta dicendo è: in un sistema convenzionale che ha tutti i limiti che la grafica ha, la geometria sfrutta il disegno come un appoggio cognitivo che permette di pensare alla perfezione, passando per un medium approssimativo e imperfetto come il disegno.

Un quadrato possiamo disegnarlo anche con i lati non perfettamente uguali, ma resta un quadrato. Specialmente se il disegno è particolarmente approssimativo in modo da impostare con lo spettatore un patto su quella che sarà la qualità della rappresentazione. Stessa cosa con un cerchio. Il disegno è una patata, ma nella mia testa c’è la perfezione ineffabile del p greco. 
La cosa incredibile quindi, applicando questo concetto alla comunicazione fra due individui è che fra me e te c’è solo uno scarabocchio storto, ma tutti e due abbiamo in mente una forma perfetta: il modello mentale di un poligono regolare, di un parallelogramma con tutti e quattro gli angoli a 90° spaccati, tutti lati perfettamente uguali, come è impossibile disegnarne. 


Disegni fatti male, convenzionali, portano a idee perfette.
I disegni fatti male sono a cavallo fra la parola scritta e l’immagine.

L’immenso Scott Mc Cloud su “Understanding Comics”.

L’immenso Scott Mc Cloud su “Understanding Comics”.

I disegni fatti male sono belli quando sono scelta, selezione di quello che è importante e quello che no.
Sto parlando di te o dell’umanità? Serve davvero che tu sia riconoscibile o mi basta la pittura rupestre?

I disegni fatti bene, beh.
Sono un problema grande, perchè vanno fatti bene, prima di tutto. 

Poi sono sicuramente più specifici e più si diventa specifici più bisogna avere le idee chiare. E se si cerca una rappresentazione perfetta si rimarrà sempre sul piano del visibile, imperfetta. Il disegno più si definisce, più si perfeziona, più cerca la corporeità, la materia, la caducità, l’immanenza. 

“Il papà di Dio” di Maicol e Mirco.

“Il papà di Dio” di Maicol e Mirco.

Se Dio lo disegni come un triangolo è Dio. Se provi a dargli un corpo finisce che somiglia a qualche persona che conosci. Maicol&Mirco questo lo hanno capito benissimo, ne “Il papà di Dio”.

Il “Soter” di Andrej Roublev.

Il “Soter” di Andrej Roublev.

Capite bene che  è diventato senza dubbio più chiaro il perchè di quel codice visivo così stretto e convenzionale di Giotto. E quell’allontanarsi dalla realtà dei miei compagni di classe aveva più a che fare con l’idea di Dio in Roublev che non con lo sguardo sul reale di Caravaggio.

Era il rapporto immediato fra pensiero e piano della figura per cui si è dannato l’anima Picasso.

Una civetta disegnata da Picasso.

Una civetta disegnata da Picasso.

I disegni fatti male sono liberi dei confini della visione e possono raccontare sentimenti e storie altrimenti inimmaginabili.  La festa di compleanno andata storta del Mago Galbusera si trasforma in un rave in un ospedale organizzato da un peperone multimilionario di nome Mr. Gucci Blaze a bordo di una ruspa. 

“Mr. Gucci Blaze - Blazin Da Red Cross” di Dr. Pira.

“Mr. Gucci Blaze - Blazin Da Red Cross” di Dr. Pira.

Eccola qua. “Che bomba il purè.”

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Tutto in una pagina di quel genio assoluto che è il Dr. Pira.
Impensabile per un disegnatore nei limiti del disegno realistico.
Lui ci riesce. Grazie ad un altissimo livello di stilizzazione e di consapevolezza. 
Grazie a dei disegni “fatti male”.

Alla fine di tutta questa interminabile riflessione, quindi, a che conclusione sono arrivato?
I disegni vanno fatti bene o male? Dipende. 
Dipende se si cerca l’universale o il peculiare. Il trascendente o l’immanente. Dio o la natura. L’ordine o il caos. Le sfumature o la struttura. L’idea o la pratica. E se si è capaci si può anche usarli tutti e due, contemporaneamente.

Andrea Pazienza e Gipi, due maestri immensi del fumetto hanno una cosa in comune.
Nascondono lo stesso incredibile segreto. 
Che hanno il controllo della ghiandola pineale fra questi due mondi. Sono bene e male. Oriente e occidente. Pittorico e calligrafico. Mentale e fisico.
Sono fra i pochissimi ad aver capito che non solo i disegni fatti bene e i disegni fatti male sono entrambi risorse potentissime e che il disegno può essere scrittura, grafia e pittura, illusione, impressione. 

Ma che possono essere usate assieme.

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Pazienza sa figurarsi e disegnare tutti i colori, l’aria tersa di una mattinata a una giostra medioevale, mentre un cavallo crolla decapitato, disegnato con la consapevolezza del peso del corpo come se l’avesse abbracciato un istante prima di farlo morire in un tripudio di disegno anatomico della massima complessità. 

Tutto mentre la testa mozzata del suo cavaliere schizza in aria con l’aria stupita di paperino, tratteggiata con 4 segni scelti come colpi di spada giapponese che, oltretutto, conosceva bene.

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Gipi è in grado di meditare e ascoltare gli occhi fino a cogliere un punto di giallo in una nuvola grigia, di processarla mentalmente dall’abitacolo di un’automobile intuendone ogni singola conseguenza fotografica, scegliendo i dettagli che gli servono a accarezzare la miseria umana che trasuda da ogni angolo di una fiat punto e stamparci dentro un personaggio che non ha nulla di reale, disegnato come da un compagno delle medie, fatto della stessa materia delle parole che pronuncia, ed è letteratura col naso a triangolo. 

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Vita, disegnata male.

ARF 2018 | Arfist Alley, commission e incontri.

NOTIZIA DELL'ULTIMO MINUTO:
Mi spiace da morire, ma è sopraggiunto un imprevisto lavorativo e non potrò più essere presente in fiera per l'Arfist Alley.

Saltano quindi le commission, le stampe e tutto il resto.

Sarò comunque presente il pomeriggio di domenica per l'incontro su cinema e fumetto.

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ARF!2018
Questo fine settimana ci sarà la quarta edizione per un festival a cui sono sempre più legato. Il merito è soprattutto degli organizzatori che stanno facendo l'impossibile per far crescere questo evento ad una velocità incredibile.

Quest'anno sarò presente con diverse attività a partire da VENERDI' POMERIGGIO.
La mattina purtroppo sono in ISIA per torchiare i miei poveri studenti.

Andiamo in ordine:

1) Arfist Alley

Le dediche sono gratuite per ogni libro acquistato (Golem, Astrogamma, Viewpoint 1, 2, 3 o DX Vol.A). Per i libri Bonelli (Orfani, Monolith) ci sono delle sessioni dedicate (lo spiego più giù).

Come funzionano le commission, invece?

Quest'anno, per evitare i guai dell'anno scorso (non ho avuto tempo per chiuderne più di una - un po' pochino, direi), ho tenuto tutti i pomeriggi liberi da altri impegni. Solo domenica avrò un incontro di una mezz'ora a metà pomeriggio, ma per il resto sarò sempre disponibile. Inoltre accetterò SOLO una commission al giorno, ci tengo a effettuarle nel migliore dei modi.

LE COMMISSION CHE EFFETTUERO' SARANNO SOLO 3 (una per ogni giorno - venerdì, sabato e domenica).

Potete prenotarvi, basta scrivere un commento qui sotto o mandarmi una mail.

Potete chiedermi un disegno, tema e soggetto lo scegliete voi, tanto io posso rifiutarmi categoricamente di accontentare la vostra voglia di Benedict Cumberbatch + Mecha Minipony.

I formati consentiti sono A4 e A3.
I prezzi variano fra formato e complessità. 
Il prezzo minimo per formato è di €150.00 per un A4 e di €200.00 per un A3.
Il prezzo minimo prevede un solo soggetto/personaggio.
Per ogni soggetto/personaggio/minipony aggiuntivo parliamo e valutiamo tempi, costi e implicazioni morali.

Tutte le commission possono, a mio insindacabile giudizio, contenere dettagli a toni di grigio o a un colore. Possono essere a inchiostro o a matita. 

Nota: nel caso non ci sia il tempo fisico per realizzare la vostra commission (troppi ordini e/o volete un disegno troppo complesso) non accetterò ordini extra arf! Sono carico di impegni e purtroppo ho solo quei giorni a disposizione.

Inoltre, sempre all'Arfist Alley potrete comprare:

Un milione di stampe.

Le stampe, al solito, sono fatte da me, su carta Hahnemuhle da 310 GSM, 100% cotone, bright white con inchiostri Ultrachrome (200 anni di resistenza alla luce del sole diretta), firmate. Ci sono sostanzialmente 3 formati diversi e saranno tutti scontati per la fiera.

A4, € 50.00 invece di €55.00
A3, € 80.00 invece di €85.00
A2, € 130.00 invece di €150.00

Alcuni disegni fatti a mano.

A partire da questi QUI mi porterò dietro un sacco di disegni handmade, in vendita.

 

ATTENZIONE:

Ho uno sciccosissimo POS bluetooth, e posso essere pagato con carta di credito/bancomat/postepay.

 

2) Monolith e Orfani Sam

Sarò allo stand della Sergio Bonelli Editore per dedicare sia Monolith (Primo e Secondo Tempo) che Monolith volume unico ( la versione da edicola).

Questi gli orari: 
26 magg: 11:00/12:00
27 magg: 11:00/12:00

 

3) Golem e Astrogamma

Subito dopo le dediche in Bonelli sarò per un'ora allo stand BAO per dedicare Golem e Astrogamma. A occhio e croce 12:15/13:15, quindi, sempre solo 26 e 27 maggio.

 

4) Incontri

Quest'anno me la cavo con un solo incontro di domenica pomeriggio.
tema: fumetto e cinema, si parlerà anche di Golem e del suo adattamento cinematografico.

…E SE IL CINEMA ITALIANO SI INNAMORASSE DEL FUMETTO?

Mentre i cinecomics registrano i più alti incassi della storia, finalmente anche da noi iniziano a emergere le prime sinergie tra l’industria cinematografica e il mondo del fumetto italiano. Ne parliamo con i principali player di questa piccola, grande, rivoluzione… e concluderemo il tutto con un’esclusivissima anteprima completamente dedicata al pubblico della Sala Talk.

Intervengono: 
Vincenzo Sarno, Davide Luchetti, Claudio Falconi, Mattia Guerra, LRNZ, Mauro Uzzeo.

Modera: 
Dario Moccia

 

Ci vediamo all'ARF!

 

Ghost in The Shell: Global Neural Network | Star Gardens

I'm working on a GITS story, "Star Gardens", written by Brenden Fletcher and supervised by Shirow Masamune.
The story will be out for Kodansha USA along with three other stories in an anthology titled "Global Neural Network".

Here is the complete creator list.

Can U Dig It?