Manifesto per la libertà dell’arte e del pensiero digitali

ITA: Ver. 1.0 del 7/2/2022

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PREMESSA

Con l’avvento degli NFT si è ricominciato a ragionare molto di ‘arte digitale’ e il discorso si è esteso per la prima volta a una fetta enorme di pubblico non specializzato. Stranamente, però, anche fra gli specialisti sono in pochissimi a sapere cosa ‘digitale’ voglia dire davvero, una carenza che ho avuto io stesso, nativo digitale e pioniere di questo tipo di arte. Ho faticato a capire cosa fosse fuori fuoco nelle mie considerazioni riguardo all’utilizzo del digitale nell’arte, ma ora mi ritengo in fin dei conti fortunato di aver visto nascere questa nuova realtà tecnologica, perché mi ha imposto una riflessione profonda su un medium che uso tutti i giorni da anni e mi ha spinto a realizzare un’opera. 

Ci tengo a precisare fin da subito che questo testo vuole essere, per quanto mi è concesso, una presa di posizione quanto più chiara possibile sull’argomento da parte mia come artista indipendente, un manifesto critico e artistico che possa essere un primo passo per iniziare una mia riflessione sull’arte digitale libera e consapevole.

Non ho assolutamente la pretesa di avere la verità in tasca, anzi, mi auspico di riuscire a capire qualcosa di più proprio grazie al confronto che questo testo potrebbe generare con i suoi lettori. Questa è una riflessione artistica e una esposizione quanto più immediata e discorsiva possibile delle conclusioni a cui sono arrivato. Sono felice se aggiungerà qualcosa al discorso su questa materia artistica, fosse anche per segnare un vicolo cieco sulla mappa delle possibili speculazioni.

Concludo questa premessa cogliendo anche l’occasione di mettere nero su bianco che non esistono e non esisteranno mai NFT di mie opere. Per questo motivo, qualora vi imbatteste in un qualsiasi NFT mintato da una mia opera è automaticamente da considerarsi un falso.

LA DEFINIZIONE DI DIGITALE

Per affrontare la questione con precisione la cosa più urgente è senza dubbio spazzare via il più comune dei luoghi comuni: ”digitale” non vuol dire “numerico” - e ciò che è digitale non è assolutamente vincolato ad un’esistenza su supporto elettronico. “Digitus” (il dito per far di conto) da cui deriva la parola “digitale” significa “cifra” (come in cifrario) e non “numero”. L’etimo della parola quindi non suggerisce che “digitale” è 'quanto venga riportato in forma numerica'. Ciononostante, perfino nella definizione riportata su una rinomata enciclopedia quale è la “Treccani”, una fonte innegabilmente affidabile di informazioni rigorose sulla lingua italiana, “digitale” è riportato erroneamente come ‘attributo di informazioni che sono numeriche’, e che lo sono nel dominio di un supporto esclusivamente elettronico:

digitale agg. [dall’ingl. digital, der. di digit (dal lat. digĭtus «dito») «cifra (di un sistema di numerazione)»]. – In elettronica e in informatica, qualifica che, in contrapp. ad analogico, si dà ad apparecchi e dispositivi che trattano grandezze sotto forma numerica, cioè convertendo i loro valori in numeri di un conveniente sistema di numerazione (di norma quello binario, oppure sistemi derivati da questo), sinon. quindi di numerico; anche, qualifica delle grandezze trattate da tali dispositivi, e della loro rappresentazione: rappresentazione di dati (o immagini) in d., in formato d.; calcolatore d., lo stesso che calcolatore numerico (v. calcolatore); effettuare una conversione da analogico a d., da d. ad analogico (v. conversione,

Sempre nella “Treccani”, a conferma del fatto che non si tratta di una semplice sfumatura nel testo o di una svista, nella definizione di “analogico” il termine “digitale” viene usato in maniera mutualmente intercambiabile con “numerico”:

analògico agg. – In elettronica, qualifica che, contrapposta a digitale o numerica, si dà a dispositivi, apparecchi ecc. che trattano grandezze sotto forma a., rappresentate cioè da altre grandezze legate a esse da una relazione di analogia (→ digitale). In fisica, qualifica della corrispondenza tra due fenomeni diversi ma retti dalle stesse leggi formali e che perciò possono essere assunti l'uno come modello dell'altro; in particolare, un modello fisico a. può servire come strumento di calcolo o di misura (la posizione dell'ago di un manometro rispetto al quadrante graduato esprime in modo a. la misura della pressione).

Tuttavia è semplice dimostrare che la simbiosi tra numerico-elettronico e digitale è puramente occasionale, nata per questioni di mera utilità, e non è una conditio sine qua non: la grandezza fisica di una stanza lunga cinque metri e larga quattro è senza dubbio esprimibile mediante quantità numeriche, misurabili con un metro analogico o digitale, ma ciò non fa della stanza un oggetto digitale. Questo perché, come tutto quel che è analogico, possiamo misurare, parcellizzare, dividere all’infinito le dimensioni della nostra stanza senza mai toccare un limite strutturale nel processo.
La distanza di un centimetro può essere suddivisa infinite volte, al pari di un metro o di un chilometro (come nel paradosso di Achille e la tartaruga). Ciò significa che non c’è una quantità di informazioni finita in nessuna delle possibili misurazioni numeriche, che pure descrivono le caratteristiche fisiche della stanza in questione. Al contrario, nello spazio digitale si avrà che una distanza di 5 per 4 pixel a un bit di profondità colore (1 o 0, bianco o nero, ad esempio) ha una “cifra” di informazioni possibili finite e certe al suo interno. È proprio la “cifra” finita e certa di informazioni possibili, la quantizzazione in unità discrete e indivisibili, a rendere digitale un’informazione. Perfino il fatto che un’informazione sia binaria, caratteristica comunissima nel digitale, non ci dice nulla sul suo essere numerica: bianco e nero non sono certo due numeri, ma due colori. Su e giù sono due posizioni nello spazio, ma grazie ad esse possiamo serenamente contare quante opzioni abbiamo per configurare lo stato di un interruttore - possiamo cioè definirne il digitus, che è inequivocabilmente pari a due.

“Digitale” è quindi qualsiasi cosa che sia costituita da una cifra discreta, un digitus di dati unici e indivisibili. Trattandosi di dati discreti, unici, limitati, esatti, è possibile riprodurre queste informazioni in una quantità indefinita di copie senza che ci sia la minima perdita di informazioni. Tornando all'esempio della stanza, è semmai l’idea numericamente perfetta che ci permette di costruire la stanza ad essere digitale (sia essa espressa attraverso un disegno tecnico o CAD o un documento di testo), non la stanza.



LA MENTE DIGITALE

“Arte digitale” è quindi qualsiasi forma d'arte, sia essa grafica, acustica, interattiva, multisensoriale o letteraria, costituita da una quantità esatta di informazioni discrete, cioè da una funzione quantizzata - in opposizione alla funzione continua dell’analogico. Rallentare un nastro di audio analogico all’infinito produrrà sempre nuove informazioni, esattamente come accade ingrandendo un dipinto a olio con una lente o avvicinandosi ad esso. L’immagine o l’audio digitale invece ci porteranno a raggiungere il limite della risoluzione a cui sono stati quantizzati, con la generazione di aliasing audio o video.

È interessante inoltre notare che la scrittura, sia essa manoscritta o stampata, consistendo in un sistema di segni discreto (si pensi ai caratteri alfanumerici, ma anche al sistema di notazione musicale), rappresenta il più antico sistema di codifica digitale delle informazioni, mantenendo tra l’altro una perfetta human readability (non necessita di calcolatori come strumenti di traduzione e mediazione fra emittente e ricevente nel mondo analogico). Il testo viene percepito con i sensi (la vista o l’udito, o il tatto nel caso del Braille) ma viene recepito e processato nella sua vera forma discreta. Dimostrazione ne sia che è assolutamente possibile leggere un testo ad alta voce dallo schermo di un computer e, avendo un numero teoricamente infinito di persone all’ascolto che ne possono trascrivere il contenuto su altrettanti computer, ottenerne infinite copie esatte, bit per bit.

Dunque anche tramite il solo linguaggio orale l’uomo è capace di pensare e produrre contenuti digitali. Applicando una soglia quantizzata alla natura analogica del suo cervello con la creazione di un linguaggio, l’essere umano è capace di creare, fruire, copiare, modificare e immagazzinare opere (digitali) complete senza il bisogno di alcun dispositivo esterno. Non è un caso che per programmare un computer si usi, appunto, un linguaggio.
Ne sia la riprova che qualsiasi sia il tipo di linguaggio di programmazione, sia esso di alto o basso livello, alla fine si tratta sempre e comunque di informazioni discrete che arrivano a configurare gate logici puri (bit).

«Sempre caro mi fu quest'ermo colle» è una frase che ho memorizzato quando ero ragazzino e che non faccio alcuna fatica a richiamare alla memoria. È un'informazione digitale esatta, al pari di uno sprite di Space Invaders. Così come i pixel e la loro posizione su una griglia ortogonale in uno sprite monocromatico del gioco Taito, in un verso di poesia si possono contare le lettere: si sa quali, quante e in che ordine sono, con precisione assoluta. 

Basta trascriverle per averne una copia digitale. 

Di nuovo, se centomila persone diverse, con centomila voci diverse, leggessero a voce alta la frase «Sempre caro mi fu quest’ermo colle» saremmo in grado di comprenderla perfettamente ogni volta, perché la natura digitale del linguaggio ci permette di tagliare via tutte le piccole variazioni fonetiche e timbriche che sono al di sotto della soglia ragionevole di errore. Quantizziamo l’informazione al pari di un computer sotto dettatura con un sistema di correzione d’errore estremamente efficiente, al pari di un encoder binario che schiaccia le informazioni nel tratto alto di un'onda quadra restituendoci il valore “1” e quelle nel tratto basso riportando uno “0”. Tagliando via tutto il rumore nel mezzo, digitalizziamo. Abbiamo un sistema di codifica/decodifica analogico/digitale - digitale/analogico (DAC A/D-D/A) nel cervello, solo che nel linguaggio, invece di avere 0 e 1 come uniche opzioni da annoverare nel digitus, ci sono circa 26 lettere, 10 cifre, i vari segni di interpunzione. 

Giacomo Leopardi ed io usiamo lo stesso dizionario, lo stesso vocabolario, le stesse lettere dell'alfabeto. È solo l'ordine in cui mettiamo le parole a fare la differenza nei nostri scritti. Certo, le combinazioni delle parole di un linguaggio sono matematicamente finite, ma sono talmente tante da risultare all’atto pratico infinite e questo può senza dubbio confonderci le idee sulla natura digitale del linguaggio scritto.

Per quanto riguarda il linguaggio parlato, solo una minima parte dell'infinita gamma di versi gutturali e sconnessi che può essere prodotta da una laringe umana può essere trascritta con esattezza digitale (l’alfabeto fonetico internazionale è ciò che permette di quantizzare i suoni emessi, a prescindere dal significato e dal linguaggio). Ciò che non può essere codificato nemmeno con i grafemi dell’alfabeto fonetico ricade nel suono più vicino, altrimenti non ‘esiste’ per nessuna lingua. Quei suoni non sono codificati e quindi non hanno una mutua rispondenza fonetica e semantica in un registro convenzionale di riferimento. 

Similmente, non esiste un sistema di segni scritto per codificare con esattezza una gamma quantizzata di gesti, per quanto riguarda la recitazione e interpretazione attoriale di un testo.

Esattamente come lo sprite di Space Invaders, il linguaggio scritto ha così poche sfumature da essere squisitamente lo-fi e pur tagliando via una quantità spaventosa di informazioni, anzi proprio grazie a ciò, raggiunge un’efficienza e una precisione incredibile.

Un’esperienza vissuta due soli giorni prima ci appare già come un'impressione confusa o quantomeno inesatta; mentre invece un’informazione digitale come un verso di poesia, «Sempre caro mi fu quest’ermo colle», salvata nel nostro cervello decine di anni fa (credo una trentina, nel mio caso), è perfettamente conservata e incorruttibile - proprio perché è stata memorizzata nella sua forma encoded, quantizzata grazie al linguaggio.

Rimanendo in tema di pixel art, mia nonna è stata una maglierista eccezionale, ha lavorato per tutta la vita e da quando sono piccolo uno dei ricordi più vividi che ho di quando la vedevo ai ferri era sentirla contare. Una volta ideato il soggetto, operava né più né meno come un computer collegato a un complesso sistema (bio)meccanico che eseguiva bit per bit tutte le istruzioni contenute nel progetto originale. Il lavoro della maglia, come anche del ricamo a punto croce, è un lavoro assolutamente digitale, raster, e lo è su più dimensioni visto che anche il colore è per definizione indicizzato. Non è un caso che uno dei campi industriali in cui l’automazione digitale ha raggiunto risultati di efficienza eccezionale è stato proprio quello tessile e del ricamo (penso alla collaborazione fra Singer e Nintendo per il loro sistema CNC di ricamo controllato da un Game Boy). Ho ancora un paio di schede perforate che mia nonna usava per controllare la meccanica della macchina da maglieria - somigliano in maniera sorprendente alle prime schede perforate usate come supporto dati per i primissimi computer, e a quelle per far suonare sequenze automatizzate ai pianoforti meccanici.

Progettazione, linguaggio e letteratura: già solo analizzando queste tematiche appare chiaro che non c’è nulla di più umano e artistico del digitale. 

È letteralmente nel nostro DNA - che infatti è un sistema di archiviazione digitale puro, utilizzato peraltro in maniera eclatante dai Massive Attack con la loro edizione digitale del disco “Mezzanine” registrata proprio su filamenti di DNA.

Sean Booth del duo elettronico Autechre in un’intervista su Rolling Stone, a chi si interrogava sulla disumanità della loro forma musicale ritenuta ‘troppo digitale’, rispose dicendo: «Non mi sentirei di distinguere l’artificiale dall’umano, perché il primo è sempre e comunque opera del secondo. Nessuno ha mai avuto i computer nella storia, né i dinosauri né nessun altro. Il computer è umano.»



ANALOG HOLE

Nelle arti grafiche, così come in tutte le forme artistiche già menzionate, le opere digitali possono certamente esistere senza il bisogno di un convertitore A/D-D/A; tuttavia, in casi di elevata complessità e definizione la mole di informazioni è ingestibile a mente. Si rende quindi necessario per la creazione e fruizione dell’opera una continua traduzione verso la percezione analogica. Al giorno d’oggi un pittore, nonostante usi il digitale, vede comunque a occhio nudo informazioni analogiche, luce e colore, su un display che fa di tutto per nascondere la natura discreta dell’enorme quantitativo di informazioni che visualizza (riducendo otticamente i pixel quanto più possibile, vedi i vari Retina Display che nascono con la promessa di renderli invisibili). Il pittore quindi può ragionare in termini di luce e colore, di percezione pura, e non di bit. Il computer si prende cura di quantizzare tutte le informazioni che l’artista inserisce nel calcolatore tramite un’interfaccia naturale come uno screen tablet e archivia l’opera in una forma digitale, cifrata, machine readable.

La creazione dell’opera digitale avviene quindi indirettamente, tramite una continua traduzione nel dominio dello stimolo analogico, con computer e schermo a fare da ponte fra artista e supporto di codifica e archiviazione digitale, in maniera molto diversa da come avviene nel linguaggio scritto o in un sistema algebrico - tuttavia non completamente differente.

Riprova ne sia che possiamo sempre scattare una foto o girare un video a uno schermo che visualizza immagini digitali, anche se protette da copia digitale, trattandole e catturandole né più né meno di un qualsiasi fenomeno luminoso proprio grazie a quell’analog hole che ha fatto e continua tuttora a far dannare i distributori di media digitali con screener, leak e compagnia. 

Il processo non sarà dissimile neppure quando dell’opera se ne vorrà fruire: nessuno percepirà la forma cifrata dell’opera, il digitus. Chi vedrà il dipinto digitale dovrà usare un dispositivo che converta il contenuto del file digitale in segnali analogici, per poi decifrarlo attraverso i propri sensi su un canale che tornerà ad essere assolutamente analogico (vibrazioni dell’aria tramite un loudspeaker, sollecitazione luminosa attraverso un display, una stampa etc).

Ricapitolando, l’opera è stata realizzata con strumenti della percezione analogica (vista e tatto, penna e display) e altresì fruita su un supporto analogico (display, proiezione o stampa), mostrando chiaramente che la digitalità dell’opera incide ben poco sul piano del reale.

Anche un’opera AI driven, generativa, come un’immagine generata con una GAN (Generative Adversarial Network) grazie all’intervento di un programmatore, per essere percepita deve trasformarsi in luce e passare dalla retina di qualcuno. Per quanto possa sembrare capzioso e cervellotico, prendiamoci la libertà di ipotizzare un’opera che si basi sull’informare un algoritmo di machine learning di una AI o di una GAN catturando immagini a caso dalla rete - uno screengrab di migliaia di IP cam pubbliche, ad esempio. Questo processo genera poi migliaia di immagini che sono quindi prodotte a partire da informazioni visive che non sono state scelte né valutate da alcun essere umano: è uno scambio macchina-macchina. Anche in questo caso così estremo, qualsiasi sia la forma in cui queste immagini verranno fruite - siano esse una directory di file .jpg che nessuno può aprire ma che stanno lì a dimostrare un concetto artistico, siano esse descritte in un testo come unica testimonianza del fatto, sia che vengano esposte in una galleria d’arte o messe su un social network - devono prima o poi trovare una forma definitiva e trasformarsi in una percezione analogica di qualche tipo.



LA MATERIA DEL DIGITALE

A complicare ulteriormente le cose, l’intenzionalità progettuale dell’artista non può non essere presa in considerazione: se realizza un’opera su tela con pigmenti e leganti, lo farà in maniera tale che quello che lui vede sia la migliore incarnazione possibile della sua immaginazione creativa, giudicando l’opera grazie ai suoi sensi, alla sua memoria e alla sua capacità di proiezione figurata della realtà. L’artista stabilirà incontestabilmente che quella da lui creata, e nessun’altra incarnazione, sarà l’opera originale. È superfluo puntualizzare che qualsiasi riproduzione meccanica o fotografica dell’opera non può che essere altro dall’opera in sé, ed annulla la possibilità di fruire autenticamente dell’opera originale come è stata pensata dall’artista. 

Paradossalmente, quindi, se consideriamo il tablet display di un pittore digitale al pari di una tela dovremmo poter “ritagliare via” la ‘cosa’, per poi poterla esporre in questa sua forma di stimolo visivo analogico. Inviarne il file - per quanto esatto al bit possa essere - verso un'altra device elettronica in grado di visualizzarlo non porterebbe che a una riproduzione lontana dalle intenzioni dell’artista. Tragicamente, anche avendo due display identici, potremmo ottenere dei colori diversi per le considerevoli differenze di visualizzazione che si trovano tra esemplari diversi della stessa macchina, e quindi avremmo una fruizione diversa fra originale e copia, dove per “copia” non si intende il prodotto di una riproduzione, ma l’opera originale visualizzata su un altro supporto di destinazione finale. 

In definitiva per avere la stessa identica esperienza - cioè quella pensata, realizzata e fruita dall’artista - l’opera di pittura digitale dovrebbe poter trovare un supporto analogico definitivo da cui essere inseparabile, al pari di un acquerello su carta o di un affresco su un muro, dove supporto e pittura diventano un tutt’uno: un supporto fisico, quindi autenticabile con una firma fisica.

È interessante provare ad applicare questi principi a due medium diversissimi come la musica e la scultura, ma che condividono sorprendentemente alcuni punti cruciali della loro essenza.

Cominciamo con la musica e dal fatto che nella musica si fatica più che in altre forme artistiche a individuare un ‘originale’, ovvero un oggetto, una cosa che possa essere il pezzo unico di una produzione musicale.

La musica è incisa generalmente su supporti audio analogici o digitali partendo da una performance in studio o dal vivo di musicisti che viene catturata con la qualità migliore possibile da microfoni professionali. Per questo si ricorre all’idea che l'originale di un disco sia il ‘master’, ovvero il supporto audio (sia esso analogico o digitale) che rappresenta la prima incisione definitiva e postprodotta, conforme alla volontà artistica dell’autore - da cui poi possono essere effettuate delle copie su scala industriale.

Volendo essere pignoli, però, quello che noi riduciamo semplicisticamente all’idea di master come supporto include tutta una serie di elementi che hanno a che fare con una riproduzione che è stata approvata in determinate condizioni di ascolto (specifici modelli di speaker, ma anche tutto l’ambiente in cui questi speaker suonano) che difficilmente vengono incluse con l’acquisto di un master come opera originale: nessuno, neanche il collezionista più maniacale, si comprerebbe mai l’intero studio dove è stato realizzato il master di un disco pur di avere l’esperienza aurale più vicina possibile a quella dell’artista. 

Il collezionista si accontenta del nastro, o dell’hard disk, che è solo una parte dell’opera, se la consideriamo su un piano percettivo - sul piano simbolico è sicuramente un pezzo unico. Il suo nuovo proprietario ne allestirà la riproduzione su un impianto che rispetta in qualche modo le condizioni di ascolto ottimali, oppure semplicemente sul suo personale sistema di speaker, nell’ambiente in cui è abituato a sentire la sua musica - sconfessando in questo secondo caso l’autenticità dell’esperienza percettiva. Ciò non è completamente dissimile da quello che accade quando un quadro viene spostato dallo studio di un artista per trovare una destinazione nell’appartamento di un nuovo proprietario e quindi una nuova luce, un nuovo contesto. Il colore si basa sulla giustapposizione: trasferire un’opera pittorica nata nella penombra di una oscura bottega, posta sotto le cliniche lampade dicroiche di un museo dalle pareti bianche vedrà completamente alterata la percezione dei valori tonali, creando una nuova esperienza visiva, non necessariamente in linea con la visione dell’artista. Ogni artista sa perfettamente che dalle opere ci si separa e che è bene che seguano il loro percorso in autonomia, eppure alcuni con la cornice si garantiscono un intermondo visivo che è ancora parzialmente sotto il loro controllo. La cornice, in questi casi, assume un ruolo incredibilmente importante: una sorta di piccolo pezzo di mondo intorno all’opera che viaggia con essa per garantirne in parte la resa percettiva, una zona di rispetto per le scelte dell’artista.

Anche la musica è una forma artistica tutt’altro che eterea: come dimostrano i teatri, le chiese, gli auditorium, le sale da ascolto, gli impianti degli audiofili e le sale di registrazione, se la intendiamo nella sua forma più pura ed autentica, ovvero inclusiva del passaggio chiave dell’allestimento, è decisamente ingombrante.

A complicare le cose parlare di allestimento nella musica è un esercizio scivoloso in quanto l’ambiente in cui essa si propaga è spesso parte integrante della musica stessa operando come cassa di risonanza, ovvero diventando parte integrante degli strumenti musicali o delle possibilità canore di un cantante. Gli organi a canne che si usano nelle chiese sono in grado di produrre solo suoni elementari, onde sinusoidali pure con una sola armonica per ogni nota. Se suonassero in una sala anecoica produrrebbero un suono privo della complessità armonica a cui siamo abituati: tutte le armoniche aggiuntive che rendono inconfondibile il suono degli organi sono date infatti dai riverberi e dalle distorsioni che avvengono nelle complesse strutture architettoniche degli ambienti in cui vengono installati. Se pure immaginassimo un organo in grado di riprodurre elettromeccanicamente un brano sempre allo stesso modo di un carillon, comprarselo senza la chiesa significherebbe privare lo strumento della sua cassa armonica ambientale, dissolvendo la possibilità che quel suono che abbiamo apprezzato possa continuare a verificarsi nella sua forma originale - come separare il ponte e la cassa armonica di una chitarra.

Riassumendo, il master come forma di pezzo unico ‘originale’ soffre spesso di dipendere tantissimo dalla procedura di allestimento (la 'cornice'), ma anche e soprattutto di non potersi portare dietro la possibilità di emettere autonomamente il suono in una forma tale che possa essere certificato dall’artista come reference assoluta di qualità massima. Al master manca cioè la capacità di poter sollecitare la percezione, l’udito del suo destinatario, senza dipendere da un sistema di riproduzione hardware, ovvero manca quel ponte che ci permetterebbe di passare dall’idea astratta di master all’effettiva realtà di un vero e proprio originale musicale, apprezzabile direttamente dalla percezione.

Mi chiedo allora se, allo stato delle cose, un master potrebbe essere considerato tale solo se inclusivo di un soundsystem certificato.

A tal proposito un caso che merita tutta l’attenzione possibile è la musica elettronica, in particolare quella che viene prodotta programmando un sequencer. Un sequencer (analogico o digitale) è un apparato elettronico che permette la creazione e riproduzione di sequenze di segnali di controllo. Questi segnali consentono di comandare strumenti musicali elettronici, siano essi strumenti elettromeccanici, campionatori, o sintetizzatori. Questa musica è in grado cioè di poter essere suonata in automatico dalla macchina stessa, senza alcun bisogno di una performance umana di mezzo. 

Nello specifico un esempio eclatante è la chip music su Nintendo Game Boy, device che abbiamo incontrato parlando del ricamo e che torna nel discorso anche e soprattutto in questo ambito.

Il Nintendo Game Boy è sia un sequencer digitale che un sintetizzatore e campionatore digitale. È inoltre in grado di riprodurre autonomamente suono, attraverso uno speaker on board e il jack cuffia. Nel caso di un un brano scritto con LSDJ su un Game Boy, come ne creano i miei amici Bisboch e Kenobit, specie se accompagnato da un paio di cuffie indicate dall’artista, il supporto e lo stimolo aurale coincidono: ciò rende effettivamente possibile individuare nell’oggetto sia il pezzo unico digitale collezionabile sia lo strumento perfetto per fruire dell’opera nelle stesse condizioni in cui l’artista ha preso le sue scelte formali definitive (questo sempre ammesso che il brano non preveda passaggi successivi di postproduzione o integrazione).

Un altro esempio di questa identità fra supporto digitale e forma percettiva definitiva sono le macchine Elektron Monomachine e Machinedrum utilizzate dagli Autechre per la realizzazione dei dischi Untilted e Quaristice. In quelle due macchine, inclusive dei file di progetto e quindi in grado di riprodurre l’audio in maniera autonoma, possiamo individuare l’originale di quei dischi. Diventano un manufatto ascoltabile, senza i compromessi formali e tecnici a cui un disco o una riproduzione ‘master’ ci metterebbe necessariamente davanti: mastering con tagli pesantissimi su frequenze basse per poter uscire su vinile, la “legalizzazione” delle frequenze altissime o bassissime per essere compatibili con una distribuzione in streaming, comunque una quantizzazione a risoluzioni ben più basse di quelle di cui sono capaci le due macchine originali. 
Sono un autentico originale musicale, fisico e digitale. 

Poniamo che da qualche parte nel mondo esista il pianoforte/sequencer Disklavier dove Aphex Twin ha registrato il suo album Drukqs: decidere come esporlo in maniera tale che il suono sia correttamente rappresentato, o che sia stravolto per arrivare ad un significato completamente diverso dalle intenzioni originarie dell’opera spetta sicuramente ad un curatore, né più né meno come accade nella scultura.

Se penso a l”Ercole e Lica” esposto presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea di Roma nell’allestimento “Time Is Out Of Joint” la scelta di collocare la statua in una determinata posizione, in una determinata relazione con altre opere di epoche diversissime, genera una vita completamente nuova per la scultura in sé. Muovere una scultura sotto una nuova luce significa alterare in maniera drastica l’immagine che guardiamo, non diversamente dal mettere un registratore Studer con il suo sound system certificato all’interno di una chiesa gotica, in un tunnel ferroviario o in una stanza di 10 metri quadri.



LA FORMA FINALE

Concentrandoci su arti non performative, l’autore genera l’opera.
L’opera in sé, qualora sia su un supporto digitale o meno che sia, è una ‘cosa’ generata.
L’allestimento definisce le modalità di fruizione e il contesto conferendo potenzialmente un senso aggiuntivo all’opera.
Rivolgendo uno sguardo sommario alla produzione planetaria di contenuti digitali, si direbbe tuttavia che siano pochissimi gli artisti davvero consapevoli della forma finale delle loro opere.

Di cosa sia la loro arte, e del senso del contesto.

È come se di fronte alla possibilità di raggiungere milioni di follower nel dominio software ci si stesse lentamente accontentando di ottenere solo quello - la dopamina da gratificazione istantanea, creando uno strano chiasmo fra i numeri esplosivi del reach delle opere nel mondo social e la quantità di queste opere che trovino poi un supporto fisico definitivo autentico. Un rapporto inversamente proporzionale fra l’impatto mediatico che cresce sempre di più e la voglia di lasciare qualcosa di tangibile nella storia e nel mondo, voglia che sembra essere diventata appannaggio degli artisti delle vecchie generazioni. 

Di contro, va detto che loro non avevano alternativa.

Forse sbaglio, ma non credo proprio che Michelangelo, mentre realizzava gli affreschi della Cappella Sistina, avesse qualche dubbio su quelle che erano le specifiche della versione definitiva della sua opera e quale il suo supporto. Questo livello di chiarezza di pensiero, spesso accompagnato anche da una sana megalomania, ha portato chiarezza anche nella testa di noi destinatari: nonostante le infinite querelle sul restauro non abbiamo alcun dubbio né sul perché delle soluzioni formali scelte, specie in relazione al supporto di destinazione, né su quale sia la forma che Michelangelo ha scelto per la sua opera, e nemmeno su quali ne siano invece le riproduzioni - meccaniche o fotografiche, digitali o analogiche che siano.

Invece le opere create su device elettroniche nel dominio digitale, abbandonate ad un’infinità di supporti dati, riprodotte su schermi diversissimi fra loro e condivise su social media network che creano contesti completamente al di fuori del controllo dell’artista, vengono sì salvate e archiviate (sulla natura e l’affidabilità di questi archivi sorvolerò visto che meriterebbe un saggio a parte), ma non trovano quasi mai una loro forma definitiva incontestabile - al contrario di come avviene ad esempio per una scultura o un dipinto. Inoltre i supporti su cui le opere vengono fruite sono troppo spesso vincolati a servizi e tecnologie a dir poco effimeri. 

Dialetticamente, ci si potrebbe nascondere senza dubbio dietro la natura ‘liquida’ dei media digitali elettronici, invocandone l’ubiquità e la sterminata varietà di formati. 
Eppure, se analizziamo l’arte tradizionale, designare una tela come supporto finale per il nostro progetto di dipinto ad olio non esclude affatto che a lavoro finito e autenticato se ne possano trarre innumerevoli reincarnazioni mediante copie stampate o visualizzate su una varietà infinita di supporti elettronici e non (il pensiero vola subito alla solita “Monna Lisa”, probabilmente l’opera d’arte visuale più riprodotta sulla più grande varietà di supporti di sempre). 
Non vedo affatto nessun impedimento, tranne per alcuni casi estremamente specifici, nel recuperare anche nell’arte creata con strumenti elettronici l’abitudine di identificare un supporto finale per l’opera, sia esso un dispositivo o un supporto di stampa. Aiuterebbe sicuramente a dirimere un’enorme quantità di problemi e porrebbe gli artisti che fanno uso del digitale elettronico in una posizione di incredibile forza sul mercato, solitamente appannaggio di artisti tradizionali.
Nel 2018 ho realizzato un’opera particolare, il poster ufficiale di Lucca Comics and Games. In breve, si tratta di un’opera realizzata partendo da uno script informatico e da una serie di elementi grafici che combinati assieme hanno prodotto una serie di illustrazioni. Le combinazioni possibili erano un’enormità (un numero di avogadro di numeri di avogadro, a occhio e croce), e sono state stampate migliaia di immagini uniche differenti su supporto cartaceo. Si tratta di una quantità sterminata di poster figurativi unici, stampati in digital offset su carta patinata semilucida.
Al processo di stampa ho potuto inoltre integrare un sistema di firma automatizzata, ciascuna unica e diversa: il plotter eseguiva sempre lo stesso movimento in punti random con un pennarello a base d’acqua, ma grazie alle coperture casuali degli inchiostri stampati la resa della firma dipendeva anche dal rifiuto della carta in base al grado di saturazione di pigmento.
Queste immagini hanno vissuto nella loro forma digitale e prima ancora come script, ma per me come autore le opere che davvero contano sono questi poster stampati. 
Una miriade di pezzi unici, tutti originali. 
L’operazione artistica era quella di rappresentare una moltitudine, una comunità. 
Non si può quindi non considerare il contesto, ovvero la totalità delle opere prodotte: girare per Lucca e vedere migliaia di poster tutti diversi eppure tutti parte di un sistema coerente è stata l’esperienza che volevo ottenere, è l'opera nella sua complessità, ma non ho nessun dubbio che si tratti anche delle singole immagini che volevo ottenere, nella forma che volevo ottenere, nonostante non ne abbia viste neanche il 2%: seguivano le mie regole grafiche e cromatiche, su carta, firmate autenticamente una ad una, frutto di un processo digitale, ma assolutamente analogiche come opere finali.
L’originale è sul supporto di destinazione finale, non lo script, i bozzetti o i singoli elementi grafici che costituiscono la matrice dell’opera.
Quando Piranesi incideva con il bulino le sue matrici di rame (analogiche), lo faceva per produrre dei disegni su carta: delle splendide incisioni a inchiostro, scelto da lui, su carta, scelta da lui, per la migliore resa possibile in bianco e nero.
Gli originali dei poster sono le stampe fisiche, non la matrice (digitale), ognuna con il portato di unicità che la stampa su carta comporta: cristalli di pigmento che incontrano la struttura caotica della pasta di cellulosa e si configurano secondo reazioni chimiche uniche e irripetibili, conferiscono una vera e propria “impronta digitale” (pun intended) all’opera. 

Volendo esasperare il discorso, perfino nella Net Art - forma d’arte basata intrinsecamente sulla rete - l’opera non sfugge al fatto di essere una ‘cosa’, di essersi scelta un supporto. Quello che ci illude che un'opera dalla natura computazionale sia immateriale è la natura remota, distribuita, delocalizzata del suo supporto fisico, e il confondere l’idea con la sua effettiva implementazione nel mondo reale. Essere su una rete o nel cloud non rende un’opera meno fisica di un olio su tela. Si tratta solo di un supporto molto più complesso e tentacolare, fatto di server, cavi di rete, silicio, su cui corre elettricità generata da petrolio, turbine meccaniche o pannelli solari. Informazioni che non vediamo, ma che sono mosse da realtà fisiche assolutamente incontestabili e niente affatto trascendenti o immateriali.

Se è vero che ormai anche l’arte tradizionale non sfugge a processi sul piano informatico - pensiamo ai freeport e a come il possesso di un’opera fisica possa ridursi a un’informazione su un database elettronico in mano al proprietario - è certo che il digitale non sfugge alle leggi della termodinamica, non può esistere senza un corpo e anche nella sua forma più apparentemente immateriale risiede comunque da qualche parte nel mondo: hard disk, memorie a stato solido, magnetiche o di qualsiasi tipo, fosse anche il cervello dell’ultimo essere umano rimasto sul pianeta - visto che abbiamo chiarito che il digitale non è necessariamente elettronico.

E se è vero che la natura di un oggetto digitale non è assolutamente vincolata alle piattaforme elettroniche e che non ha la ‘numericità’ come fondamento costitutivo, quindi che anche le opere digitali più radicali come quelle computazionali restano ‘cose’, risulterà facile capire come gli NFT aggiungano ulteriore confusione semantica, creando un enorme quantitativo di informazioni false e parziali sul digitale e in particolare sull’arte digitale. 

Procediamo con ordine. 



COSA SONO GLI NFT

Gli NFT, o “Non Fungible Token” sono unità di dati non equivalenti tra loro collocati in un registro digitale (blockchain), identificabili individualmente e la cui esistenza è ‘garantita’ dalla struttura informatica complessa della blockchain stessa. 
Per intenderci, le banconote che usiamo tutti i giorni sono “fungible”, ovvero nonostante abbiano un numero di serie unico che li identifica, sono equivalenti fra tagli uguali: se devo pagare un oggetto che costa cinque euro posso usare una qualsiasi banconota da cinque euro a mia disposizione. Una vale l’altra, insomma, a parte ovviamente casi di manomissione che la rendano non equivalente, ad esempio nel caso che accolga l’autografo di una rock star famosa in tutto il mondo e che la renderebbe unica nel suo genere e un tesoro inestimabile per i collezionisti. Anche i bitcoin e le criptovalute sono fungible
Anche qui, un bitcoin vale l’altro. Le criptovalute sono la quintessenza del concetto stesso di fungible proprio perché non essendo fisiche non corrono neanche il rischio di essere manomesse e quindi rese uniche e inconfondibili.
Gli NFT, pur funzionando in larga parte come le criptovalute, sono invece non-fungible e lo sono by design. Questo significa che ogni NFT è unico come ogni singola criptovaluta, ma non è equivalente a nessun altro NFT. Sono tutti pezzi unici e possono quindi avere un valore in denaro completamente arbitrario.
Proprio grazie a questa loro caratteristica, gli NFT hanno trovato un loro utilizzo come certificati di autenticità digitali e sono legati a un file presente sulla rete di cui garantiscono l’unicità e il proprietario. 
In un NFT possono essere inserite svariate informazioni oltre a quelle del momento di inserimento nella blockchain, o del venditore ed acquirente al momento di un cambio di proprietà. Sono presentati come la rivoluzione del paradigma della certificazione nell’arte digitale, dato che tra le informazioni abitualmente viene inserita la posizione nel web di un file con un semplice link, associato ad un nome - oltre che altre proprietà (diritti d’uso separatamente dal file stesso, identificativi di oggetti fisici, ecc.). 

A questo punto è fondamentale specificare che nella loro applicazione al mondo dell’arte gli NFT non sono le opere in sé, quindi. É facile pensare che lo siano, visto che nella vulgata si parla degli NFT come pezzi unici di arte digitale, ma ad essere precisi gli NFT non nascono per contenere gli elementii costitutivi di un’opera. Sono solo documenti che certificano il proprietario delle opere a cui si riferiscono.

A causa della loro complessità informatica e per essere tecnicamente sostenibile, il supporto hardware di questi contratti è condiviso: l’infrastruttura è shared tra tutti gli NFT della stessa piattaforma blockchain e la autenticità giuridica di questi contratti è proprio resa possibile da questa delocalizzazione condivisa che garantisce una vera e propria forma di trust.

Come funziona il possesso di questi oggetti digitali?

Sia che vengano creati sia che vengano acquistati da un utente, gli NFT come anche le criptovalute vengono associati a un wallet. I wallet sono i portafogli degli utenti e sono identificati da un indirizzo pubblico. Ogni criptovaluta o NFT sta sulla blockchain ed è invece definito da una coppia di chiavi crittografiche: una pubblica, sulla blockchain stessa e una privata, in possesso dell’utente. Queste coppie di chiavi vengono confrontate ogni volta che avviene una qualsiasi transazione sul registro. Questo avviene per garantire la sicurezza, la corretta scrittura, la legittima assegnazione e la veridicità delle operazioni che vengono svolte sulla blockchain.

Questo è il motivo per cui il poter affermare il possesso di criptovalute e NFT è legato indissolubilmente all’esistenza della blockchain.

Tanto è vero che sebbene la chiave privata di un NFT possa essere salvata anche su un supporto di memoria offline, un cold wallet, ogni NFT per essere considerato esistente e valido in un determinato momento necessita comunque di essere confrontato con la blockchain ‘attiva’ e con la sua chiave pubblica online. Necessita cioè di una certificazione da parte di un organismo informatico ciclopico, always on e always online, costituito da centinaia di migliaia di nodi fisici computazionali che compongono la blockchain, collegati alle infrastrutture fisiche della rete informatica che abitudinalmente chiamiamo Internet

Anche per un NFT che sia custodito in un dispositivo fisico offline è quindi necessario che la blockchain sia in uno stato operativo e funzionale per certificarne l’esistenza e la veridicità. 

Qualora la blockchain smetta di esistere o la chiave pubblica e privata non dovessero più essere verificabili reciprocamente (ad esempio per lo smarrimento o il deterioramento del supporto su cui è scritta la chiave privata) l’NFT smetterebbe di esistere con tutto il contenuto dell wallet.
La promessa, della quale i presupposti sono quindi integralmente contestabili, è questa: dato un mondo (quello puramente digitale) in cui è impossibile avere degli originali naturali, distinguibili percettivamente dalle copie, gli NFT possono introdurre artificiosamente nell’arte digitale il concetto di 'pezzo unico’.

Ogni NFT nella migliore delle ipotesi può diventare uno ‘smart contract’ che racchiude metadati di un file presente sulla rete (la loro posizione sulla rete, ad esempio). L'opera in sé, tanto il file originario quanto le copie, resta quindi accessibile da tutti, di pubblico dominio, scaricabile ad un indirizzo specifico sul web - mentre un solo utente può vantare il diritto di esserne il proprietario proprio grazie allo storico delle transazioni sulla blockchain che costituiscono il DNA di un token NFT.
Un po’ come se una persona potesse diventare, con un contratto, il proprietario del Colosseo: esso resterebbe visitabile da tutti allo stesso modo, ma solo uno potrebbe vantarsi di possederlo potendo fare riferimento al contratto in questione - che certificherebbe quindi la possibilità del proprietario di esercitare i diritti che il possesso di quel bene gli dà, ad esempio la facoltà di rivenderlo a terzi.

I vantaggi appaiono enormi perché questa innovazione renderebbe finalmente certificabile la paternità e la proprietà di un file tenendo traccia di tutti i vari passaggi di mano dell’opera, generando così un sistema di ‘diritti di seguito elettronici’ che permette ai singoli artisti di ottenere una percentuale del guadagno di ogni vendita - fintantoché le transazioni continuano ad avvenire sulla stessa piattaforma.
Soprattutto questi contratti di autenticità diventano entità completamente digitali e quindi scevre da tutti i vincoli e limiti della materia, al sicuro da qualsiasi forma di data rot grazie ad un sistema ridondante all’ennesima potenza che mantiene inalterata nel tempo la loro natura digitale sul loro supporto di elezione - una rete delocalizzata composta da tutti e di tutti. 

Purtroppo la stessa garanzia non si estende automaticamente ai file di cui certificano l’autenticità che possono essere addirittura modificati o interamente sostituiti con altro da chiunque abbia accesso al server su cui sono salvati visto che nella stragrande maggioranza dei casi nell’NFT non è riportato nessun metadato che renda incontrovertibile l’abbinamento del contratto alle informazioni costitutive del file. Viene inserito l’url, il nome del file e nient’altro. 

In pratica i file certificati dagli NFT sono protetti in una fortezza con una serratura avanzatissima e inespugnabile ma con la porta aperta sul retro.



GLI AFFARI SONO AFFARI

Tuttavia, quello che trovo davvero irricevibile della filosofia alla base della soluzione proposta dagli NFT è che internet venga considerata un’entità astratta e di tutti, scollegata dalla sua realtà fisica, finanziaria e politica, e che venga data per scontata la necessità di device elettroniche per l’archiviazione, la creazione e la fruizione del digitale. Internet è e rimane un’infrastruttura tutt’altro che eterea (pun intended, e 2): si tratta di un insieme di strutture fisiche, migliaia e migliaia di chilometri di cavi di proprietà di provider internet Tier 1 che sono nel business con il solo obiettivo di guadagnare denaro, e lo guadagnano facendosi pagare l’accesso a queste infrastrutture con dei pedaggi. 

Trovo quantomeno folle l’idea di incastrare cultura, ad esempio le mie opere, all’interno di una gabbia che si apre solo alle condizioni imposte da un imprenditore privato che specula per ogni operazione sulla rete, e può decidere out of the blue di rendere inaccessibili o carissimi i suoi contenuti anche a me che ne sono il creatore o il proprietario. Il fatto che io debba essere legato indissolubilmente a delle device niente affatto gratuite per accedervi e fruirne lo trovo semplicemente disumano e antidemocratico. È il sintomo di una postura mentale prona all’idea che l’uomo dipenda in qualche modo dalle macchine e dal cloud per avere accesso al digitale, cosa categoricamente falsa e filosoficamente deprimente. Questa mentalità apre a scenari di speculazione fuori controllo, dove i proprietari della parte fisica della rete possono letteralmente imporre qualsiasi condizione per permettere l’accesso ai dati, che avremmo a quel punto volontariamente chiuso in un forziere del quale non possederemo mai la chiave. A peggiorare ancora il quadro, se possibile, c’è il fatto che i provider Tier 1 continueranno a manutenere le infrastrutture fisiche e in generale a curarsi del “benessere” della rete solo finché sarà per loro una fonte di guadagno. Dare per assodata la rete e crederla eterna sono gli errori più madornali che si possano compiere, visto che non è altro che un business e come ogni business potrebbe essere seriamente messo in crisi da un’infinità di fattori - primo fra tutti il fatto che diventi un business che non conviene più a nessuno.

A proposito di business: non è un caso che i provider Tier 1 siano tutti nei paesi più ricchi del mondo. Internet e l’accesso ad essa sono tutt’altro che realtà universali e democratiche dato che non riguardano affatto la totalità della popolazione mondiale. Ad oggi, circa il 40% dell’umanità non ha accesso alla rete per il semplice motivo che non c’è alcun interesse finanziario che lo permetta.

Come conseguenza di ciò, gli NFT rimuovono totalmente l’autore dal suo ruolo fondamentale (essere l’unico e il solo a poter decidere per le proprie opere quale sia l’originale, quale ne sia la forma o quante iterazioni essa contempli), e lo sostituiscono con un sistema decentralizzato di certificazione dove bisogna pagare un dazio a privati per accedervi, e per registrarsi al servizio bisogna avere un documento di identità valido. Oltre la schedatura, la cessione di dati personali e il paywall, troviamo solo un contratto, non l’opera o il suo artista.

Anche la promessa di un’arte digitale incorruttibile si disgrega completamente alla luce del fatto che l’esistenza stessa della rete come la conosciamo oggi è cosa di pochissimi anni fa: non possiamo sapere che destino avrà in caso di guerre, o di stravolgimenti sociopolitici. Basti pensare alla minaccia nei confronti della Net Neutrality sventata di recente o alle conseguenze della rottura di un cavo sottomarino durante l'eruzione del vulcano Hunga-Tonga-Hunga-Ha'apai.

La “Gioconda”, per contro, è untethered: non consuma nulla, non è incarcerata a doppia mandata in nessun servizio telematico privato e, per quanto soggetta a tutti i limiti e le fragilità di un oggetto fisico e sicuramente vincolata da articolatissimi contratti legali, è passata di mano in mano sopravvivendo ad ogni tipo di sconvolgimento dell’umanità, pandemie e cataclismi naturali inclusi. Ha attraversato centinaia di anni di storia e ciò l’ha resa, oltretutto, un ottimo investimento per chi ne è entrato in possesso. Non si può dire lo stesso delle centinaia di migliaia di foto che scattiamo con i nostri telefonini (non so voi, ma a parte quelle 3 o 4 foto che ho stampato per puro caso non ne è sopravvissuta neanche una dell’era smartphone), figuriamoci di immagini archiviate a pagamento su domini privati in hosting da aziende private - tutti anelli deboli esposti ad ogni tipo di rovescio del destino. Con il più probabile di tutti, la bancarotta di uno qualsiasi degli attori coinvolti, costantemente in agguato.



CRITICHE ARTISTICHE E FILOSOFICHE

Aborro l’ipotesi che io non possa passare brevi manu la mia opera originale a uno sconosciuto che non abbia un qualche documento di identità, un digital wallet o un account su un qualche tipo di rete. Aborro di non poter fare dono di un mio disegno a un immigrato clandestino, privo di documenti di identità, a una persona che magari fugge da una dittatura o da una guerra.

Digital wallet, denaro, infrastrutture, confini, criptovalute, token - sono tutte parole che non dovrebbero avere nulla a che fare con l’arte e la cultura. Mi sembra invece si sposino bene con la finanza e il merchandising un tanto al chilo, con il ciarpame effimero da vendere alle bancarelle del mercato e le sorpresine collezionabili delle merendine.

È emblematica in questo senso l’operazione che ha effettuato l’artista americano Beeple vendendo degli NFT di immagini e brevi animazioni. Le opere sono state presentate nella forma di un box contenente un QR code per raggiungere l’NFT stampato sul retro di quelli che lui stesso ha definito ”physical tokens”, nella fattispecie dei piccoli display LCD autenticati fisicamente con una firma dell’artista che mostrano appunto l’immagine o il video che si è comprato. Trovo impossibile di fronte a chi ha comprato quelle cose sostenere il fatto che il physical token non sia l’opera re ipsa, visto che si tratta di un’immagine deliberata su un supporto deliberato che, simbolicamente o meno, rappresenta un pezzo unico dell’artista. L’incarnazione definitiva di quell’opera. È irricevibile che vada considerata come se fosse solo una parte dell’opera o come una specie di segnaposto per l’opera “vera” e “immateriale”, visto che di vero e soprattutto di immateriale non c’è proprio nulla e che si tratta solo di un contratto che stipula la proprietà di un documento digitale che neanche può contare su un supporto chiaro. 

E qui mi duole aprire una breve parentesi, ma non posso esimermi dall’aggiungere al discorso anche una mia personale opinione sul piano prettamente estetico. Mi rattrista particolarmente vedere grandi artisti immolare le proprie opere e la loro reputazione umana pur di salire sul carrozzone commerciale degli NFT - questo volendo tralasciare l’uscita tragicomica degli Uffizi che hanno creato un NFT per una copia serigrafica digitale unica del Tondo Doni di Michelangelo. Splendide immagini realizzate in tecnica tradizionale da maestri contemporanei indiscussi vengono digitalizzate per poi essere animate in maniera approssimativa (spesso da terzi) in nome di una non si sa quale necessità artistica improvvisa - dando vita a questa specie di spillover digitale concertato in fretta e furia, si direbbe solo per non perdere l’occasione (nel 99% dei casi puramente ipotetica) di guadagnare un sacco di soldi. Il risultato sono opere statiche talvolta meravigliose che degenerano in animazioni davvero sciatte, con un effetto non dissimile dalle cartoline lenticolari che si trovano nei bookshop dei grandi musei - dove qualche classico della pittura viene “aumentato” con interventi posticci di animazione. Ricordano i lavori di Scorpion Dagger, ma mancano della consapevolezza comica di Scorpion Dagger.

Provo esattamente la stessa spiacevole sensazione di quando un artista anziano, un maestro al culmine della sua meraviglia formale, si lascia abbindolare dalle promesse del più misero degli espedienti tecnologici. Questa corsa a revisionare il proprio corpus artistico per rendersi appetibili nei marketplace NFT mi ricorda tantissimo l’effetto dell’arrivo dell’emboss di Alien Skin o le lens flare di Photoshop negli anni ‘90, o ancora Bryce 3D con i suoi paesaggi frattali. Arrivati in mano a giganti dell’illustrazione li hanno devastati, facendo perdere loro gli ultimi anni di splendide carriere appresso a strumenti completamente sottodimensionati rispetto alle capacità formali che avevano sviluppato nel tempo. 
Ecco - immaginatevi una roba del genere, ma senza la scusante dell’età.

In definitiva gli NFT hanno prodotto - in nome del denaro - un inasprimento della mancanza di consapevolezza del supporto fisico dell’arte digitale e un mercato ideale per il grande e inaspettato filone di certificati di autenticità per la paccottiglia e i magneti da frigo digitali.

Occorre infine menzionare anche la trasformazione degli artisti e delle loro opere d’arte in strumenti di advertising per promuovere una criptovaluta. Ether, la criptovaluta di riferimento per gli NFT e associata al protocollo Ethereum su cui gli NFT sono nati, ha raddoppiato il suo valore in meno di un mese grazie a un processo innescato dai 69 milioni di dollari spesi per l’opera di Beeple e proseguito poi con l’apporto economico di migliaia di artisti increduli che si sono buttati su quella che hanno scambiato per una corsa all’oro. Quei 69 milioni di dollari sono una cifra relativamente piccola per un ricchissimo investitore come Metakovan che vantava al momento dell’acquisto qualcosa come 2 miliardi di dollari in criptovalute, una spesa ancor più modesta se pensiamo che ETH è una valuta transnazionale che riguarda tutto il mondo.
Se li mettiamo a confronto con la spesa annua di marketing di un gruppo bancario nazionale (quella di Bank of America ammontava nel 2019 a circa 2 miliardi e mezzo di euro), o li confrontiamo con la spesa media annua di tutto il mondo nel settore bancario, 69 milioni di dollari per portare la propria offerta finanziaria su tutti i canali media del pianeta è una cifra davvero contenuta - specie se pensiamo che ha portato al raddoppiamento in un mese dell’intero patrimonio a disposizione di Metakovan. Quale pacchetto finanziario tradizionale promette uno scenario simile? La vendita di Beeple è stato un affare clamoroso sul piano del marketing e della finanza. Una miriade di artisti si sono fatti e continuano a farsi spontaneamente promotori della criptoarte creando de facto advertising per la criptovaluta stessa e generando dalla notte al giorno il motivo stesso di spenderla, la criptovaluta. 69 milioni di dollari sono stati il prezzo di uno fra i più vantaggiosi ed economici piani di comunicazione per il mercato finanziario di sempre.

Gli artisti che hanno adottato gli NFT lo hanno fatto sperando di diventare ricchi, di abbracciare il cambiamento disintermediando le compravendite delle loro opere grazie alla blockchain, ma di fatto hanno convertito soldi in Ether per generare i loro token certificato, travasando artista dopo artista enormi fonti di ricchezza nella blockchain, creando così una credibilità impensabile per la criptovaluta stessa e facendo quindi salire le sue quotazioni alle stelle.

I criptoartisti stanno operando per lo più inconsapevolmente e gratuitamente come manovalanza del marketing: si pongono come pionieri dell’arte senza aver realmente innovato nell’ambito della ricerca artistica (gli NFT sono certificati di autenticità e non hanno nessun impatto sulla forma dell’opera in sé) spesso cadendo anzi in una estetica di rappresentazione del digitale per il digitale piuttosto macchiettistica e datata, se posso permettermi un commento, e parlano come evangelisti della blockchain, del digitale e della disintermediazione senza accorgersi che stanno associando la loro arte a gruppi di speculazione senza scrupoli, che finanziano direttamente proprio con quel denaro che serve per prendere parte al gioco. Parlano di rimettere gli artisti al centro del discorso del mercato artistico quando stanno facendo esattamente il contrario. Ancora più di prima l’oggetto non è l’arte, ma la speculazione, denaro per il denaro che sostituisce l’opera nella forma di una complicatissima ricevuta di pagamento nominale verificabile solo all’interno di un walled garden dove si paga per entrare. Uno dopo l’altro intrappolano volontariamente le loro ricchezze nella blockchain versando il loro obolo e prendono posto in quella sterminata coda lunga che alimenta la crescita di pochissimi patrimoni oltre ogni logica. 



TIRANDO LE SOMME

Appurata la loro funzione primaria di strumento di marketing per promuovere le criptovalute, gli NFT sono tutt’altro che immateriali: la piattaforma decentralizzata su cui poggiano rimane comunque una ‘cosa’ fisica che ha costi reali e proprietari privati. Per quanto essi esistano sulla blockchain, hanno comunque una natura fisica al pari di un contratto depositato in un archivio fisico. Parimenti, le opere a cui fanno riferimento hanno una natura fisica sia sul piano della fruizione percettiva che sul piano ontologico. Si tratta sì di ‘cose’ che possono diventare estremamente complesse e parcellizzate, ma pur sempre di ‘cose’. 

Per poterci interfacciare con una simile complessità (raggiungere, comprare, vendere, trasferire, mantenere e usare queste ‘cose’/contratti) ci viene imposto un paywall piuttosto articolato che include costi come l’accesso a internet, le gas fees per le varie tipologie di transazioni, una device per operare sulla rete, l’alimentazione di questa e i costi indiretti dell’inflazione nonché della manutenzione dei token. Infatti anche se tenuti in un cold wallet (ovvero scollegato dal circuito di transazioni continue), visto che la verifica della bontà di un wallet non può che avvenire sulla rete - confrontando la chiave pubblica con quella privata - c’è comunque una rete che deve essere mantenuta viva, up and running, mentre il token resta offline,e ciò genera costi indiretti sensibili.
Si tratta di un vero e proprio paywall per poter affermare la veridicità legale delle mie proprietà: trasforma di fatto il possesso di un qualsiasi bene, come ad esempio un NFT che sancisca la proprietà di una .gif o di una casa, da un diritto a un servizio a pagamento.

Ci tengo a precisare che non contesto affatto che si lucri sull’arte: si paga un biglietto anche per vedere la Gioconda, è pacifico. Non vedo come potrebbe essere un problema che gli artisti vendano le loro opere, se lo vogliono. Quello che contesto invece è che nella visione teorica alla base degli NFT il lucro e l’arte siano indissolubili a prescindere dalla volontà degli artisti, anche solo per il fatto che le opere sono ‘vere’ perché esistono nella rete che ha un costo di mantenimento, quindi un costo per accedervi. 

L’arte, la cultura e la verità come servizio a pagamento di speculatori privati.
L’arte, la cultura e la verità come costo energetico fisso.
L’arte, la cultura e la verità come appannaggio esclusivo di chi può pagare.

Come se non bastasse tutto questo implica l’abominio secondo il quale chi non può pagare non può attribuirsi una qualsivoglia opera artistica o di intelletto. Peggio ancora: chi può pagare può provare impunemente a intestarsi la paternità di un’opera altrui, specie se l’autore originario non ha già mintato un token per motivi economici o filosofici oppure è privo della connessione di rete e non può fisicamente accorgersi del furto.

Il tutto obbliga coloro che abboccano alla promessa di un grande successo economico a pagare perlomeno una tassa iniziale nella criptovaluta di riferimento, creando di fatto un mercato con una admission fee che fa della miriade di artisti sconfitti un patrimonio economico spaventoso basato né più né meno sul buon vecchio principio della long tail - il quale ovviamente arricchisce solo i grandissimi fondi di investimento che vedono decuplicare i fondi reali versati nella loro criptovaluta preferita. 

Dopo l’obsolescenza programmata di device che si stanno rendendo indispensabili nella nostra società, come gli smartphone, gli NFT sono l’ennesimo tentativo alchemico di provare a tramutare un diritto - la proprietà privata - in un servizio, con una tariffa da pagare per tenerlo attivo. L’oggetto è tuo finchè hai i soldi che ti permettano di accedervi o anche solo di dimostrare che sia effettivamente tuo - che sia in fase di creazione o in fase di passaggio di proprietario - e per continuare a fruirne devi pagare diversi attori (chi fa il minting dei token e i servizi ad essi correlati, il sistema di speculatori della criptovaluta in se, i provider a vari livelli, i produttori di hardware e intermediari di ogni tipo).

Ci tengo a precisare che non mi sono soffermato a trattare la questione ambientale, che pure ritengo gravissima, perchè è già stata affrontata da decine di articoli estremamente dettagliati (cryptoart.wtf, o gli articoli di Memo Atken sono le prime due cose che mi vengono in mente per cominciare a farsi un’idea, ma ce ne sono a non finire che prendono anche in considerazione NFT prodotti su blockchain Proof of Stake), ma soprattutto perchè le mie obiezioni sarebbero vere anche se gli NFT producessero aria fresca invece di CO2. Anzi, non posso che sperare sia presto così, in modo tale da limitare almeno i danni irreversibili sul piano ecologico. 

Per quanto sembrerà un modo di mettere avanti le mani, ci tengo anche a dire che la natura delle mie obiezioni è completamente svincolata dall’aspetto informatico in sé: la tecnologia delle blockchain non potrà che cambiare in futuro e non sappiamo davvero se lo farà in meglio o in peggio. Le mie obiezioni sono su una scala decisamente macroscopica e su un piano di analisi completamente diverso, molto probabilmente finiranno per restare vere anche in questi scenari potenziali. 

Per questo colgo anche l’occasione di fare un appello specificamente diretto ai tecnici o agli entusiasti di crypto che dovessero riscontrare eventuali imprecisioni in questo testo sul piano informatico: concentratevi sul senso del discorso. Il problema che vi sto segnalando è la volontà di intrappolare la proprietà privata e il concetto stesso di autenticità e verità all’interno di una rete che fa capo a capitali privati, di trasformarla in un servizio a pagamento e di non avere contezza dell’opzione di codifica digitale che offre il pensiero umano. Di non considerare che il digitale, per quanto a volte complesso da identificare in una forma precisa per via dei suoi contorni frammentari, ha un corpo fisico tanto quanto il resto del reale e non è appannaggio di dispositivi informatici, tantomeno di una criptovaluta.

Non è una critica informatica la mia, è prima di tutto artistica, politica e filosofica. Se potete, quindi, tenetelo a mente prima di muovere obiezioni.

Gli NFT oggi sono utilizzati per lo più per transazioni che riguardano beni artistici informatici, ma non mancano le prime applicazioni su beni reali, nel ramo immobiliare ad esempio.

Proiettando nell’immediato futuro le mie obiezioni ed estendendo le problematiche emerse dal mio ragionamento fuori dai computer le contraddizioni diventano lampanti. 



DUE DOMANDE

Tornando all’arte, perché invece non posizionare quella digitale nel mondo reale, nell’arte tradizionale, senza dover creare qualcosa che dipenda per forza dalla rete (e quindi dal denaro) o da una device elettronica (e quindi nuovamente dal denaro) per essere considerata vera o originale? Consentiremmo ad un essere umano del 4000 d.C. in possesso di tecnologie completamente diverse dalle nostre che ritrovasse la nostra arte digitale sotto le macerie di una civiltà ormai scomparsa di fruirne liberamente, né più né meno di come abbiamo fatto noi con pitture o manufatti egizi di seimila anni fa.

E soprattutto: se - come abbiamo chiarito - il digitale è connaturato all’uomo e le macchine non sono altro che un supporto che ne facilita l’impiego (amplificando e supportando le capacità della mente come una ruspa farebbe con le braccia), perché non rimettere l’uomo e il suo intelletto al centro del digitale?
Spezziamo le catene mentali che ci tengono ancorati al concetto che per operare in digitale sia necessario procurarsi prodotti di consumo elettronici e pagare l’accesso a servizi telematici. Inutile costringere tutta l’umanità a dover pagare un pedaggio a imprenditori privati per accedere a un dispositivo always on sul cloud quando è possibile farne a meno.

Ricordiamo, spieghiamo agli artisti che operano nel digitale che possono e anzi dovrebbero sempre stabilire arbitrariamente e autonomamente quale sia la forma esatta, definitiva, delle loro opere.



FCK NFT

A fronte di tutto ciò ho deciso come artista di mettere un punto fermo, che sintetizzi queste contraddizioni a mio avviso gravissime su un piano intellettuale con un’opera che rivendichi per la prima volta in maniera esplicita la libertà assoluta dell’uomo di operare autenticamente nell’arte digitale, stabilendo senza il bisogno di alcuna certificazione telematica, né centralizzata né distribuita, l’autenticità e l’unicità delle proprie opere.
A corollario di queste caratteristiche ne deriva la completa fruibilità dell’opera sul piano digitale e analogico senza la necessità di dispositivi o di connessione alla rete, senza alcuna contraddizione con tutti gli attributi fondamentali per definire digitale un’opera: composta da una quantità limitata di unità discrete, copiabile e replicabile all’infinito in maniera esatta attraverso un linguaggio human readable, libera dalla necessità di device per essere memorizzata o decodificata, untethered, offline, always off. 

Ho iniziato a creare immagini digitali usando un computer a 16 bit, un Amiga 500 della Commodore. Quando pensavo alle mie immagini le progettavo spesso su dei fogli a quadretti, le memorizzavo e poi le trasferivo nel computer tramite un mouse, in maniera non troppo diversa da come mia nonna avrebbe trasferito le sue idee dalla carta millimetrata alla stoffa con il ricamo a punto croce. Su un Amiga 500 disponevo generalmente di 320x240 punti con la possibilità di usare 64 colori unici. Si trattava di un processo in cui gli elementi da gestire erano davvero pochi e in cui solo ora mi rendo conto che la mia mente operava continuamente una vera e propria “transustanziazione” analogico/digitale senza il minimo bisogno di strumentazione elettronica aggiuntiva. 

Con l’aumento esponenziale della risoluzione delle immagini permesso dalle tecnologie più recenti non ho più rivissuto quella esatta sensazione di controllo assoluto delle parti costitutive di un’immagine digitale, ma non ho mai perso la consapevolezza che il processo è rimasto assolutamente lo stesso. Si è solo capillarizzato, miniaturizzato al punto tale da ingannare la nostra percezione. 

Ho deciso di inaugurare il mio nuovo modo di pensare all’arte digitale con un’opera che ne sia la quintessenza.
Per questo ho creato un’immagine raster a 1 bit con una risoluzione di 16 x 16 pixel 1:1 per un totale di 256 punti quadrati unici (2^8) che è poi stata stampata alla risoluzione di 1 punto per centimetro con tecnica di stampa digitale inkjet su carta di cotone bianca 300 g/m2 pressata a caldo. Le informazioni costitutive dell’immagine, organizzate secondo la convenzione che vede il nero come valore uguale a zero e il bianco come valore uguale a uno, sono: 

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Con una metafora dichiaratamente saussuriana, l’opera in questione, intitolata “FCK NFT” accoglie da un lato la sua forma visibile in pixel art e dall’altro svela la sua forma digitale, ovvero esattamente quella testuale riportata qui sopra, ma manoscritta. L’autentica avviene con un processo a chiasmo: il lato testuale, digitale, riporta una firma tradizionale, manoscritta, che ne autentica l’unicità. Il lato visivo, analogico, contiene una firma digitale, replicabile, scritta in linguaggio morse.

L’opera è in vendita ad un prezzo che si aggiornerà costantemente per restare sempre più alto del prezzo di vendita del più caro degli NFT mai venduti sul mercato, che oggi è quindi di sessantanove milioni e un dollaro americano - USD 69.000.001,00 - (aggiornato al 7 di febbraio 2022). La vendita di “FCK NFT” verrà suggellata dall’accettazione di un patto che prevede un diritto eterno di seguito per l’artista: si tratta una percentuale di guadagno fissa al 10% sul prezzo di vendita con l’obbligo per ogni compratore successivo di trasferire la proprietà del sopracitato contratto al nuovo proprietario ad un prezzo più alto dello 0,001% dell’opera d’arte in NFT più costosa mai venduta al momento del nuovo acquisto.

Il patto proibisce tassativamente l’uso di criptovalute per effettuare l’acquisto mentre è assolutamente possibile donare l’opera a titolo gratuito.

Per acquistare l’opera contattare l’indirizzo email seguente:

Se invece un museo statale volesse prendere “FCK NFT” in custodia, la cederei a titolo gratuito a patto che venga resa per sempre accessibile al pubblico. 

Spero che quest’opera possa essere un’occasione di ricordare che il digitale e tutto quello che ne consegue resta il prodotto della cultura e dell’intelletto di esseri umani. Non abbiamo e non avremo mai bisogno di nessun sistema delocalizzato di macchine per certificare l’esistenza di un bene digitale unico, perché noi siamo già creature digitali e lo siamo nella maniera più intima possibile.


PRO E CONTRO | Tabella comparativa riepilogativa

Questo documento può essere scaricato in formato PDF cliccando QUI. Il documento può essere redistribuito liberamente solo nella sua interezza e a patto che venga sempre citato l’autore e che non venga distribuito a scopo di lucro. Una versione in lingua inglese sarà disponibile a breve.

FCK NFT
Un manifesto per la libertà dell’arte e del pensiero digitali di LRNZ


RINGRAZIAMENTI

Revisione dei testi, traduzione:
Piera Pagnacco

Grazie a:
Rita Petruccioli
Chiara Palmieri
Hogre
Andrea Benedetti
Valentina Tanni
Kenobit
Matteo De Longis
Antonello Lipori
Walter Baiamonte
Marco Passarani
Isocore
Pierlo
The Distant Future Association